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giovedì 4 settembre 2008

Angelo Petrella, scrittore napoletano: "I romanisti avevano violato il patto tra Ultras, i napoletani volevano vendetta


Il suo nuovo romanzo noir, «La città perfetta» (Garzanti), si apre con un episodio di guerriglia allo stadio, ripreso da alcuni resoconti e filmati degli anni 1989-90 al San Paolo, con protagonisti le Teste Matte dei Quartieri Spagnoli. E del resto lo scrittore napoletano Angelo Petrella, classe 1978, ha sviluppato negli anni, come ammette lui stesso, una sorta di «ossessione» per l’universo ultrà: per raccontarlo fino in fondo, nel suo romanzo precedente, «Nazi Paradise» (Meridiano zero) si è infiltrato per lungo tempo tra le tifoserie del Napoli e della Lazio, immergendosi completamente nel loro mondo di rabbia e violenza. L'assalto al treno degli ultrà napoletani e la guerriglia in stazione: solita domenica di follia? «Mi ha colpito molto la motivazione che ha fatto scoppiare la violenza, perché rimanda al codice non scritto degli ultrà. I napoletani, infatti, aspettavano da mesi lo scontro con la tifoseria romanista, che ai loro occhi si era macchiata di una grave infrazione al loro codice di comportamento, perché a Montepulciano, l’anno scorso, durante un inseguimento sull’autostrada i tifosi giallorossi avevano chiamato gli “sbirri”. Per questo erano talmente pieni di rabbia, che non sono riusciti a contenere la violenza, sfogandola già sul treno. Farsi aiutare dalla polizia, che è il nemico principale, è infatti il crimine più grave, perché gli ultrà non vogliono interferenze esterne e preferiscono vedersela tra di loro. Il vero senso della trasferta era dimostrare a dei “traditori” che cosa significa essere un ultrà». Che cosa prevede il codice ultrà? «È qualcosa che affonda le radici nella cultura skin-head della strada. La prima regola è: nessun contatto con la polizia. Ma poi è anche vietato ricorrere al saccheggio e non sono consentite le armi. Tutte regole che appartengono alla cultura originaria degli ultrà, nata tra fine anni Sessanta e inizio Settanta, intrisa di violenza, sì, ma di una violenza anche leale, che seguiva una sorta di codice cavalleresco del combattimento, come un’epica ai tempi degli stadi. Oggi naturalmente la situazione è molto più ambigua, perché i cani sciolti infiltrati nell’universo ultrà tendono a distorcere queste regole di comportamento». Da che cosa dipende questo cambiamento secondo lei? «Dal fatto che è venuto a mancare quel rapporto tra ideali e vita da stadio, che prima era legato anche al concetto di politica come aggregazione. Oggi l’ultrà, anche nel calendario che scandisce la sua vita, conserva tutte le caratteristiche di un militante politico: le sottoscrizioni, gli striscioni, le organizzazioni delle trasferte. C’è la stessa progettualità, lo stesso entusiasmo, ma non c’è più la politica. Ci si muove in un vuoto desolante, e se prima la rabbia era finalizzata a modificare l’esistente, oggi che l’esistente non è più modificabile, la rabbia è diventata cieca e generalizzata».


FONTE: Il mattino

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